L’uomo in cima alla scala è alto e sottile; il vento gli incolla la veste al petto magro, alle lunghe gambe divaricate, si direbbe un angelo vendicatore con la spada in mano, evanescente nella luce incolore dell’alba. E’ apparso non appena ha sentito i rumori nel cortile e lì è rimasto, fermo, con ogni muscolo in dolorosa tensione, i sensi acutizzati, come una povera bestiola a guardia della tana, disposta a morire per la cucciolata, per la sua femmina che allatta, per il cibo faticosamente accumulato. Lapo lo guarda con rabbia, è stanco, vorrebbe andarsene a dormire, vorrebbe un po’ di silenzio, non sentire più tutto questo frastuono, tutte queste urla che sembrano arrampicarsi come ragnatele lungo i campanili e intrecciarsi sui tetti ammutoliti in una trama assordante, straziante e inutile. La gente urla per paura, per dolore, per rabbia, anche di piacere si urla; il grido è il compagno inseparabile delle emozioni forti, forti come questo vento implacabile, ostinato, che non ha smesso di soffiare per tutta la notte, aiutando gli incendi e spazzando via ogni nuvola perché la luna e le stelle potessero godersi lo spettacolo della riscossa dei Neri in tutti i particolari. Forse lassù in cielo le dannate urla non si ascoltano; forse i miseri tormenti umani non turbano la sconfinata serenità del vuoto celestiale. Lapo si appoggia al muro e posa la mano sull’impugnatura della spada, Cino gli si avvicina. -Non fare il matto- lo ammonisce -quello è pericoloso, lascia perdere- Lapo volta il viso infastidito, da quando il suo cuginetto osa dargli consigli? Cino, tuttavia, ha ragione, quell’uomo ha la pericolosità della disperazione, la pericolosità di chi si sa perso e vuole far pagare un alto prezzo per la sua incartapecorita pellaccia a lui così cara, nella speranza che, scoraggiati, i possibili acquirenti lo lascino in pace e finora la tattica è stata efficace perché nessuno si è arrischiato a farsi avanti. I compagni che Lapo ha trovato in questa notte funesta, stanno svuotando il fondaco e i magazzini del pianterreno e qualcuno ha già pensato di bruciare la legnaia, non appena finita la ruberia. Vogliono costringere con il fuoco a lasciare la sua postazione a quel mercante caparbio che, abbandonato da tutti, con la spada in mano, vuole morire da eroe. Ha scelto una buona posizione il maledetto, pensa Lapo, mentre sente che la stanchezza dilegua e lungo le membra appesantite vibrano ancora gli ultimi effetti di quella frenesia, di quella rabbia mista a gioia selvaggia che lo ha posseduto fin dal tramonto, quando è stato avvisato che Corso Donati con un drappello dei suoi uomini più fidati correva lungo le mura di porta in porta cercando di entrare nella terra…
…La scala troppo stretta costringe a misurarsi uno per volta con il solitario difensore del focolare domestico, il quale ha pure il vantaggio di ritrovarsi sotto i piedi il pavimento del pianerottolo, mentre l’attaccante dovrà muoversi sugli scalini. Lapo si pente di non aver indossato nella fretta neanche un giaco di maglia sotto il mantello e soppesa le sue possibilità mentre fissa quello spauracchio inferocito che non abbassa la guardia; il giovane non riesce a vedere il viso del nemico, ma sa che lo sta fissando, che segue i suoi pensieri come se gli fossero comunicati a viva voce e a sua volta percepisce l’ansia dell’altro, la stretta allo stomaco, l’aridità della bocca, il sordo galoppare del cuore e il sudore: ah il sudore! Quell’acquolina gelida che la paura spreme da tutti i pori e che ha quell’odore acre, particolare, l’odore della carne che ha fiutato la vicinanza della morte. Con gli occhi fissi in quel viso i cui lineamenti sfumano nel vapore di luce che si alza adagio dalla notte, Lapo si scosta dal muro lentamente. Il suo odio sta arrivando al punto giusto, sta diventando bianco come il centro dei carboni accessi, con un balzo improvviso sale quattro scalini mentre denuda la spada, altri tre balzi lo portano vicinissimo all’uomo che, terrorizzato, tira fendenti all’impazzata. Lapo si ferma dove le stoccate non possono raggiungerlo se il rivale non scende, e non lo farà di sicuro; adesso vede i suoi occhi, hanno l’espressione dell’animale braccato. Non sa usare la spada il che lo rende imprevedibile, attaccarlo è un’impressa rischiosa, ma ormai Lapo non ha scelta, tornare indietro sarebbe un disonore. Vedendo che l’altro non si muove, l’uomo ferma la sua demente aggressione all’aria e arretra di un passo, disorientato, è il momento che il giovane aspettava e gli si scaglia contro con impeto felino, lungo il braccio sente formicolare la vibrazione della lama che si apre un varco in quelle carni tremanti e al tempo stesso un colpo duro e secco nel fianco sinistro. L’uomo si accascia in avanti minacciando di trascinarlo nella caduta perché affondare il ferro è più facile che toglierlo e Lapo ha appena il tempo di estrarre la spada e farsi da parte prima che il corpo inerte rotoli, con sordi tonfi, giù per la scala. Il giovane sente, lungo la gamba sinistra, colare qualcosa di caldo, con stupore si palpa il fianco dolente, la veste è lacera e inzuppata in un liquido appiccicoso che gli s’incolla alle dita; si guarda le mani, la destra che sostiene la spada è ugualmente imbrattata, ma l’altra è lorda del proprio sangue; comincia a scendere lentamente meravigliandosi dei suoi passi malsicuri. Il fedele Gaggio arriva ansioso, ha capito per primo che il padrone è ferito, lo seguono Cino e Folgore. Lapo si sente fiacco, braccia fraterne lo sorreggono e lo portano via attraverso il cortile dove uomini in preda a stolta ferocia fanno scempio del cadavere del padrone di casa. Dall’alto della scala arriva una voce femminile che sfoga in pianti e urla il suo dolore. -Fate azzittire quella donna- bisbiglia Lapo con un gesto di sofferenza, ma i cugini non gli danno ascolto; vogliono soltanto portarlo a casa dove c’è Agnola che con le sue erbe saprà fermare tutto questo sangue.