I panni del saracino – Brano tratto dal capitolo “Nel bosco oscuro”

Battaglia_Navale-Aretino_thLe armate si schierarono una di fronte all’altra. I veneziani in una sola linea di battaglia con le galee legate tra loro. Il Frate ordinò alla stessa maniera le sue e all’estremità di ogni ala mise una nave in posizione avanzata rispetto alle galee. La barca era dietro la Sant’Anna e il panfilo dietro la nave presa a Stavros, pronto all’azione ove necessario. A un segnale delle trombe, la schiera del Frate avanzò e balestre e archi entrarono in azione; le balestre erano fondamentali nella prima fase del combattimento e se adoperate abilmente, senza sprecare dardi, avrebbero spopolato i ponti nemici prima dell’abbordaggio. La risposta dell’altra parte non si fece attendere. Si ingaggiò una furiosa battaglia a distanza; i veneziani lanciavano frecce, sassi, calce viva e giavellotti che in gran parte finivano in mare. Nerino usava le catapulte ma risparmiava lance e giavellotti. La forza del vento aumentava e il denso grigio delle nuvole a tratti era spezzato dallo zigzagare dei lampi, il fragore dei tuoni copriva il secco scoccare delle balestre, il sibilare delle quadrella e le urla oltraggiose che gli uomini si scambiavano, incuranti nell’ardore della lotta del minaccioso gonfiarsi delle onde. Nerino dalla poppa della Sant’Anna con un occhio controllava il nemico e con l’altro il temporale che si avvicinava. Era lucido e calmo; non aveva sentore di quell’entusiasmo malsano, quella gioia selvaggia che lo possedeva durante le battaglie. Negli scontri freddezza e calcolo guidavano le sue azioni in eguale misura dell’esaltazione e del godimento crudele e in quella micidiale fusione di opposti risiedeva il segreto delle sue vittorie e del dominio assoluto sopra i suoi uomini. Ora una componente della miscela mancava, in compenso cresceva l’altra. I veneziani stavano cambiando posizione, due ali di otto galee ciascuna si staccavano e avanzavano, mentre le cinque centrali restavano ferme. Il Frate capì all’istante le intenzioni: tentavano una manovra di accerchiamento e con pari rapidità concepì la contromossa. Fece tagliare le canape e con cinque galee si lanciò contro il gruppo rimasto momentaneamente fermo, al centro del quale c’era la capitana con la bandiera e gli stendardi. Le quattro galee restanti corsero all’attacco delle punte interne delle squadre che avanzavano, mentre la Superba, libera dal rimorchio, manovrando in modo di avere il favore del vento, si scagliava contro l’ala esterna e lo stesso facevano il panfilo e l’altra nave dalla parte opposta. Nerino era di nuovo sulla rembata in testa ai suoi uomini; i galeotti lottavano contro un mare in rivolta, ostinato nel mangiare i remi e le galee venivano avanti in un continuo saliscendi rendendo incerta la mira dei balestrieri che non smettevano di tirare. Le galee veneziane erano rimaste legate tra loro per impedire al moto ondoso di separarle. Per quelle del Frate, che al contrario avevano tagliato le canape, restare unite non era facile; in compenso la libertà di manovra era maggiore. La rembata della capitana veneziana, sfidando i dardi avversari, era gremita di armati e la Sant’Anna fallì nel tentativo di abbordarla. Con gli speroni che si toccavano, ogni schieramento pugnava inutilmente per far arretrare i difensori e invadere il ponte dell’altro. Theo e Remigio ebbero il compito facilitato, perché molti uomini delle galee che assalirono si erano trasferiti sulla capitana per rimpiazzare i morti e i feriti. Nel frattempo la Superba aveva investito la galea che chiudeva l’ala sinistra dello schieramento veneziano, costringendola a separarsi dalle compagne; il mare aveva finito di allontanarla permettendo alla Superba di dirigersi verso un’altra mentre dall’alto delle sue murate le lanciava un piovasco di frecce e dardi. Tra la Sant’Anna e la capitana la situazione era immutata; negli inutili assalti erano più gli uomini finiti in mare dei feriti. Theo e Remigio dopo aver invaso le coperte delle galee che affiancavano la capitana recisero le corde che a essa le univano, i marosi s’incaricarono di distanziarle mentre sul ponte la lotta infuriava. La capitana rimase isolata, senza possibilità di rimpiazzare i caduti. La barca che era dietro la Sant’Anna riuscì a infilarsi tra questa e la barbotta e a posizionarsi sotto la prua della capitana veneziana. I veneziani impegnati nell’affrontare l’assalto della Sant’Anna non notarono la manovra della barca e si accorsero soltanto quando i suoi uomini li abbordarono. Gli invasori non erano molti ma sufficienti a creare scompiglio tra i nemici, facilitando a Nerino l’arrembaggio. Guidata dal Frate che si riprometteva di premiare l’intero equipaggio della barca, la sua truppa si catapultò frenetica sul ponte avversario, travolgendo nel suo impeto la virile resistenza veneziana. Nerino si lasciò portare dalla violenta ondata umana a cui lui stesso aveva dato impulso e combatté con quel coraggio che rasentava l’incoscienza e trascinava i suoi uomini alle azioni più eroiche e più spietate. Per loro lui era sempre l’amato, imbattibile condottiero e lo seguivano ignari del suo intimo travaglio Tardava ad arrivare l’ondata di onnipotenza, quell’euforia assassina che negli scontri annientava in Nerino una parte di sé e, rannicchiata in un cantuccio della sua anima, quella parte assisteva con orrore alle sue imprese. Quelle nauseabonde esalazioni dei campi di battaglia, dove agli odori del sudore e del sangue se ne mescolano altri generati dalla paura e dalla rabbia, il Frate le percepiva per la prima volta. Per la prima volta sentiva le grida di dolore e i rantoli dei morenti e vedeva il sangue come un ruscello rosso cupo scaturire caldo da bocche, gole, fronti e coglieva l’ultimo, vitreo, attonito sguardo delle vittime. Per la prima volta il Frate non uccideva nemici ma uomini e non per questo il suo braccio si fermava, né la sua voce smetteva d’incitare i suoi corsari. Intanto la lotta si prolungava caotica e incerta, i violenti scossoni della nave sballottavano i contendenti che piombavano sui banchi o scivolavano lungo la corsia e si rialzavano furiosi tentando di capire se era un nemico o un compagno quello rotolato accanto. Ormai gli schieramenti erano rotti e tra i ribollimenti del mare le navi s’investivano cercando di affondare le avversarie. La Superba riuscì a far colare a picco una galea veneziana e il mare si riempì di disperati che tentavano di aggrapparsi a qualsiasi cosa galleggiasse; molti trovarono salvezza su ciò che restava del ponte della galea, prima rimorchiata dalla Superba, che andava alla deriva, non lontana. Nerino comprese che il mare stava diventando più pericoloso del nemico e con uno sforzo di volontà si accinse a finire la sua opera. Avanti miei lupi! Genova! Genova! Addosso! Addosso! Urlava con tutta la sua forza e la sua determinazione. Viva il Frate! Genova! Genova! Addosso! Addosso! Rispondevano i suoi uomini e si lanciavano sull’instabile barriera umana con cui i veneziani difendevano lo sbarramento che divideva la coperta, all’altezza dell’albero. Di là dallo sbarramento, c’erano il capitano e i suoi nocchieri, la bandiera, lo stendardo e l’onore veneziano; i difensori erano pronti a immolarsi fino all’ultimo prima di cedere e il Frate, che lo aveva capito, incitava i suoi corsari al massacro. Niente stimolava i suoi uomini come il vederlo scatenato terrorizzare le fila del nemico, quel suo coraggio temerario, quel suo disprezzo per la vita che sembrava farsi beffe della morte, suscitava in loro un entusiasmo folle, un infantile senso di onnipotenza, quasi fossero immortali e li rendeva inarrestabili. E fustigati dal vento e bagnati dai cavalloni che ormai superavano le impavesate, gli uomini esercitarono con passione il loro ancestrale mestiere. Nerino si muoveva come in un incubo, non per questo erano meno letali le sue stoccate; aveva perso lo scudo o non lo aveva mai preso, ma non c’era scudo migliore del lampeggiare della sua spada. Le due galee di scorta della capitana si erano arrese a Theo e a Remigio, una terza affondava il lungo sperone nell’acqua e si lasciava andare come un uccello ferito, tra le urla terrorizzate della ciurma che si accalcava nella poppa; tre erano fuggite e una quarta tentava inutilmente d’imitarle braccata dal panfilo e dalla nave. Sulla capitana, fu sopraffatta l’eroica resistenza dei veneziani, lo sbarramento sfondato e Nerino, in testa ai suoi uomini, si precipitò lungo la corsia alla conquista della poppa. Arrivato al giardino vide un uomo che correva lottando con il vento verso la murata di babordo con una bandiera in mano; in un lampo colse le sue intenzioni e si avventò su di lui. Dopo una breve lotta riuscì a strappargli la bandiera, l’altro si divincolò e, prima che gli uomini accorsi in aiuto del Frate riuscissero a prenderlo, si piantò un pugnale nella gola. Nerino si affrettò a sorreggerlo; l’uomo gli rivolse uno sguardo indefinibile, i suoi occhi erano di un azzurro intenso, poi lo sguardo si spense lentamente e restò vuoto e fisso mentre il sangue gli usciva a fiotti dalla bocca e dalla gola. Il Frate stette per qualche tempo interdetto, con il corpo che gli si abbandonava tra le braccia, quel pugnale lo sentiva affondare nella propria gola. Aiutato da Maffeo sdraiò il corpo sul tavolato, tolse il pugnale e avvolse la gola martoriata nella bandiera che si tinse lentamente di rosso. Il capitano aveva la spada ancora nella fodera, Nerino l’estrasse, gliela sistemò sul petto e chiuse sull’impugnatura le mani che si andavano raffreddando poi, sempre aiutato da Maffeo, sollevò il corpo e lo buttò a mare.

Informazioni su Gladis Alicia Pereyra

Gladis Alicia Pereyra è nata in Argentina da madre italiana e padre argentino, vive e lavora a Roma dal 1973. Ha pubblicato il romanzo “Il cammino e il pellegrino” (Manni 2011). Nello stesso anno, il romanzo è stato finalista al Premio Italia Medievale, promosso dall’Associazione Italia Medievale e medaglia d’Argento del Presidente della Repubblica e nel 2012 al Premio Firenze. Il manoscritto di questo romanzo ha fatto parte della cinquina finalista del Premio Letterario all’inedito Palazzo al Bosco. Nel 2012, un suo racconto “Il suicidio” è stato premiato nel XX Concorso Letterario Internazionale indetto dall’Accademia Letteraria Italo – Australiana Scrittori, A.L.I.A.S. di Melbourne. La sua monografia “Storia e storie della cucina argentina” fa parte del volume “Piante cibo del mondo” a cura di Mimma Pallavicini, pubblicato a settembre 2014, in occasione della XIV Edizione di Murabilia – Murainfiore mostra botanica che si svolge annualmente a Lucca. Scrive articoli e piccoli saggi di storia medievale per la rivista on-line dell’Associazione Culturale Clara Maffei e collabora con il sito dell’Associazione Culturale Italia Medievale. Nel 2015 è uscito il suo nuovo romanzo “I panni del saracino” edito da Piero Manni Editori. E-mail: pereyra.gladis@gmail.com Web: www.gladisaliciapereyra.it
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